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Arrivo al Centro-donna giusto in tempo per partecipare ad un incontro di gruppo ed entrare così nel vivo dell’atmosfera e dell’identità di questo luogo. Incomincia oggi una serie di incontri di scrittura sul tema dell’autobiografia. Al tavolo Teresa, Nina, Fulvia, Lella, Nadia e Gabriella, alcune sono operatrici del centro, altre sono donne che vi fanno riferimento per affrontare il loro malessere psichico ed esistenziale. Il progetto prevede  che nei prossimi mesi ogni donna porti a termine la propria autobiografia e, nel contempo, la biografia di alcune venerabili donne della città. Gabriella, che conduce il gruppo sottolinea che ciascuna è libera di raccontare i  fatti come vuole, seguendo la verità o la metafora, è libera di leggere quello che ha scritto oppure di tenerselo per sé, di darlo alle stampe (piccole tirature in proprio) oppure no. L’importante è “tirare fuori” quello che naviga dentro - che magari, ammutolito nel tempo, è diventato ragione di sofferenza, perdita di coscienza di sé. Guardare, vedersi, scrivere e confrontarsi: cosa c’entra tutto questo con la salute mentale? C’entra con una pratica di umanizzazione della psichiatria che è alla base di questo centro e di ogni altra attività scaturita dalla visione di Franco Basaglia e dalle esperienze  degli operatori e degli utenti dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste . Nell’estate del 1990, un gruppo di donne, operatrici sanitarie, utenti e donne della città, si ritrovarono per creare il  Centro-donna,  servizio territoriale che fa capo all’Azienda dei servizi sanitari locale,  deputato al trattamento di tutte le forme di sofferenza psichica delle donne, a partire dal riconoscimento di quella differenza di “genere” che troppo spesso in condizioni di debolezza si trasforma in subalternità e sfruttamento. Al centro si affronta il malessere delle donne con occhi di donna e con quella capacità di comprensione per analogie e pratica di autoconoscenza,  che permette da subito condivisione, affettività,  accoglienza e cura. Cura anche con i farmaci, quando occorre, ma al di fuori di meccanismi sclerotici di medicalizzazione di ogni disagio e schematizzazione delle persone per categorie psichiatriche. Così fra un incontro di scrittura, una attività di laboratorio, una merenda , un massaggio, un colloquio, si prende consapevolezza del  disagio e, per conseguenza, prende forma la cura.  Molte donne che si ritroverebbero confrontate al loro male in solitudine o, ancora peggio, in situazioni familiari disastrate, sono accompagnate e accompagnano in una dinamica di reciprocità dentro la quale, qualche volta, è difficile riconoscere il medico dal paziente. “Quanto più si riesce a non stare nella psichiatria, a porre condizioni di normalità, tanto più la gente sta bene. Quanto più i luoghi sono specifici per la sofferenza tanto meno sono terapeutici” dicono le donne del Centro in un loro documento, ma è la stessa opinione di Antonio Villas progettista dell’ultima sede di via Androna degli Orti. L’attuale sede è una palazzina a tre piani con giardino, nel cuore della città vecchia proprio sotto a San Giusto.  Per raggiungerla una stradina lastricata e muretti con ciuffi di verde. Il luogo è molto gradevole ed è difficile associarlo agli standard qualitativi della sanità pubblica con quell’atmosfera chiara e accogliente che si apre a chi entra: l’angolo del caffè in azione, un  gruppo di donne che fa oggetti di cuoio, altre che confezionano un patchwork, colori e arredi semplici ed eleganti. La soluzione degli spazi interni, la distribuzione delle funzioni, l’arredamento sono frutto di molti incontri fra Antonio Villas e le donne del Centro. Un sistema di tende che scorrono su cavetti di acciaio può tagliare gli spazi ricavandone di piccoli o grandi a  seconda delle necessità del momento siano esse una riunione di  gruppo o un colloquio riservato. Gli arredi di legno chiaro o persino dipinti d’oro e gli imbottiti comodi e blu , le linee dolcemente curve dei tavoli, i decori colorati alle pareti, i lampadari a fascio, le bacheche per informare, creano un ambiente amichevole, semplice da vivere, come a casa propria. “E’ un luogo che sostiene le persone che ci vivono, che non fa sentire chiusi nell’angolo e senza vie d’uscita e che ha, nel contempo, una buona capacità di attrazione verso l’esterno” dice Villas, ingegnere-design e grafico che  lavora nell’ambito dell’esperienza post-basagliana dagli anni ottanta. Fu lui ad animare l’esperienza di Hill, cooperativa sociale di progettazione e falegnameria, nata nel comprensorio dell’ex OPP di Trieste per contribuire attraverso il lavoro e la socializzazione al recupero della normalità da parte di persone svantaggiate. Alla cooperativa si chiedono interventi  in centri di salute mentale, centri sociali, sedi di lavoro per altre cooperative, residenze per anziani, luoghi di pubblico servizio. Hill opera sull'estetica e sul significato degli spazi con la volontà di rendere accoglienti e stimolanti quei luoghi, normalmente tristi e alienanti, che sono la sede tradizionale della maggioranza dei servizi pubblici dedicati alla collettività. Intorno a questa esperienza si coagulano altri professionisti interessati a lavorare nell’area delineata dall’esperienza triestina, nasce così un gruppo di progetto per l’Habitat sociale. La consapevolezza che bellezza e stimoli siano vettori di salute e vita e che tutti ne abbiano diritto muove in questi anni le attività di Villas e compagni. “Habitat sociale è un termine coniato negli anni ’80”  dice Antonio Villas  “ identifica un modo di procedere e di fare; è una ricerca di qualità possibile, un tentativo di progettare semplicemente e banalmente degli spazi sensati in modo sensato. Progettare vuol dire calarsi, senza schemi prefissati da imporre, nelle diverse situazioni con le loro storie e specificità e intraprendere un percorso di scambio e confronto. Dare luogo ad una elaborazione aperta, partecipata e contaminata; fare emergere bisogni, desideri e potenzialità. Individuare quello che il luogo deve esprimere suscitare comunicare e il linguaggio adatto all’obbiettivo e solo da qui partire per la fase finale dell'invenzione e delle scelte. ”. Oggi l’esperienza maturata dentro il perimetro dell’ex OPP  ha valicato i confini per andare incontro alla città dei normali e  bonificare così quelle strutture territoriali della sanità, il più delle volte farraginose e respingenti.

 

Box:

Centro salute – donna:  nato a Trieste nel 1990 da un gruppo di psichiatre, psicologhe  e utenti, si sta trasformando da “centro per la salute mentale della donna”  a centro per la salute della donna  tout court. I servizi odierni saranno integrati da un consultorio e da un ambulatorio ginecologico. All’ordine del giorno progetti trasversali inerenti alla menopausa, all’alimentazione e alle  terapie naturali. Fa parte dei servizi di prevenzione e cura distribuiti sul territorio che dipendono dall’Azienda Servizi Sanitari di Trieste. Dell’esperienza si parla in  “Fatevi regine” di Assunta Signorelli, Sensibili alle foglie, 1996  e in “Passaggio a Trieste” di Fabrizia Ramondino, Einaudi, 2000.

 

Luna e l’altra:  associazione di donne fondata contemporaneamente al Centro con l’obbiettivo di attivare energie fra le donne - utenti e operatrici - e la città. Fra le numerose iniziative: terapie corporee e naturali, attività di relazione e scambio con le donne delle vicine Repubbliche slave, corsi di scrittura, di lettura ed espressione teatrale, manifestazioni e feste, iniziative per la pace.

In corso la pubblicazione di libri autoprodotti a tiratura limitata.

 

L’indirizzo del Centro e dell’Associazione è : Via  Androna degli Orti, Trieste

 

Habitat Sociale: agenzia di progettazione per spazi ad uso collettivo fondata a Trieste alla fine degli anni ‘80 da Antonio Villas, progettista. Nasce e si sviluppa nell’ambito delle esperienze dell’ex Ospedale psichiatrico di Trieste. Ha progettato e realizzato centri di salute mentale, residenze per comunità di recupero, sedi di servizi per la tossicodipendenze, aree di studio, mense e sedi di cooperative.

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