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PROCESSO PRODOTTO Gap Casa
da sinistra Clara Mantica, Alberto Alessi, Francesco Morace, Andrea Branzi, Enrico Baleri, Enzo Mari, Enrico Astori, Philippe Starck, Lea Vergine, Achille Castiglioni
Ancora 1

CASA MALAPARTE / SEMINARIO 1992

Sintesi dei lavori e conclusioni 

 

Con Vanni Pasca, storico e critico del design, Francesco Morace, sociologo, sono stata invitata da Enrico Baleri dell'Associazione Casa Malaparte a costruire l'incontro che si è tenuto a Capri nel giugno scorso sul tema “Il prodotto fra progetto e mercato, l'industria storica e i suoi protagonisti”. Le aziende che hanno aderito sono Alessi, Cassina, Driade, Flos, Kartell. I progettisti invitati: Andrea Branzi, Achille Castiglioni, Enzo Mari, Alessandro Mendini, Philippe Starck e Oscar Tusquets, direttamente coinvolti nel lavoro delle imprese partecipanti e rappresentativi di per sé di aree teoriche e di progetto diversificate. L’attualità storica, in Italia e più generalmente in Europa e nel mondo, accentua il valore della tematica e l'urgenza del confronto. Combinare parole come “prodotto” “progetto” “mercato” significa per noi che abbiamo proposto l'incontro entrare nel vivo della questione: oggi è nel rapporto fra mezzi di produzione, creatività imprenditoriale, fattibilità tecnica ed economica, creatività progettuale e comunicazione effettiva (capace cioè di “dire” ma anche di “ascoltare”) che si trovano i modi per entrare in relazione con il mercato.

Interlocutore ambito che altro non è se non la società di cui tutti siamo parte, sempre più diversificata per comportamenti e codici di appartenenza e sempre più unita da problemi sostanziali come la sopravvivenza e la coabitazione sullo stesso Pianeta.

Ciò che conta è la consapevolezza che le parti del sistema - dall'uso delle risorse naturali e artificiali, alla ideazione, alla produzione, alla distribuzione, al consumo dei prodotti - sono fra loro reciprocamente dipendenti. Coltivare dunque la logica della reciprocità lavorando nella direzione di interessi comuni è la condizione necessaria per la sopravvivenza delle parti e del tutto. Viviamo un momento di estrema delicatezza: ci è richiesto di radicarci a terra ma, contemporaneamente, di sviluppare capacità visionaria e progettuale, nel vero senso della parola.

Un incontro per capirsi

L'incontro di Casa Malaparte è stato ricco. Durato tre giorni, il primo a porte chiuse fra gli imprenditori e gli altri due alla presenza del pubblico - progettisti, industriali, giornalisti e operatori di varia provenienza - ha prodotto molto materiale.

Dichiarazione di intenti personali, richieste , qualche scontro polemico. L'elemento più forte, a mio sentire, è un sincero, reciproco interesse a capirsi. Utopia, responsabilità, valore, etica, società, progetto politico sono termini finalmente tornati in circolazione nei territori del design. Restituisco qua, così come mi è stato chiesto da Chantal Hamaide, quegli argomenti emersi dall’incontro che corrispondono, secondo la mia personale visione, a quei punti chiave su cui siamo chiamati a confrontarci operando scelte precise e manifeste.

Nazionalismo e internazionalità

Il “caso” che accende il dibattito è quello della Driade:

decentramento delle lavorazioni artigiane nell’est asiatico, designer internazionali, massima concentrazione sulla domanda estera, prossima apertura della sede promozionale a Berlino, considerata da Enrico Astori la capitale d’Europa, città viva e piena di quelle sollecitazioni che in Italia non trova più.

Si può chiamare la Driade una azienda italiana?

Per Luti della Kartell e Gandini della Flos è importante rimanere in Italia perché è dalle sinergie fra azienda e risorse sul territorio che si alimenta l’impresa. Per Luti, che proviene dal settore abbigliamento, l’errore e già state fatto nella moda; il mancato reciproco potenziamento delle imprese produttrici, delle associazioni e delle istituzioni, private e pubbliche, ha fatto sì che il sistema italiano della moda sia oggi penalizzato da una forte emorragia di energie che hanno trovato a Parigi sinergie più favorevoli fra imprenditoria e città. Per Gandini rimanere dentro i confini nazionali è anche questione di responsabilità civile nei confronti dei lavoratori occupati.

Per ambedue si tratta di rivitalizzare le istituzioni storiche del disegno industriale, come il Compasso d'Oro, l'Adi e la Triennale o pensare a nuovi tessuti connettivi che creino stimoli e facilitino confronti, alleanze, iniziative comuni. Per Alberto Alessi, l’italianità dell'impresa corrisponde ad un imprinting così preciso che poco importa dove essa abbia sede. Consiste nel gusto, nella acculturazione in senso estetico che hanno gli imprenditori italiani del design. Per Branzi uno dei grandi meriti dell’Italia è proprio quello di essersi aperta all’internazionalità diventando un grande laboratorio. Sull’internazionalità dei mercati nessuno sembra invece avere dubbi. È caduta la divisione geografica dei luoghi, il mercato coincide con le genti che abitano il mondo, che migrando da una parte all’altra del pianeta e portando con sé usi e costumi, sottopongono la cultura occidentale a molte influenze e cambiamenti. Per Starck ne deriva che la produzione del prossimo futuro avrà caratteristiche di molteplicità e libertà. Non ci sarà più spazio per alcun “dictat”.

Per Branzi il tema portante della contemporaneità è proprio la nuova internazionalità. Viviamo in un sistema capitalistico post industriale che si deve rigenerare poiché, a seguito della caduta dell'ipotesi socialista, non ci sono più alternative esterne ad esso. Le diversità fra le genti del mondo sana più apparenti che reali; comuni sono i problemi di fronte ai quali ricercare qualità profonde - etiche, morali, politiche - per costruire uno scenario internazionale dove possano convivere tutti i linguaggi territoriali. Lo “stile intenazionale” è dunque un progetto politico all'interno del quale la casa e la citta assumono valore dominante.

L’impresa, dal prodotto al mercato

Per Luti l’impresa è costituita dall'insieme di più fattori:

design, produzione, distribuzione e comunicazione. Il rapporto imprenditore/design che è all'origine dell'affermazione del made in Italy non basta più pur essendo indispensabile.

L'impresa deve ridare centralità al “plus” creativo del prodotto ma insieme costruire scelte consequenziali per la gestione della creatività. Per Morace si deve lavorare all’ottimizzazione delle strategie distributive e commerciali che siano sintoniche con la nuova cultura dei consumi. Più che moltiplicare i prodotti occorre progettare sistemi di distribuzione e di vendita passando dal concetto di “marketing” a quello di “societing”, cioè dalla logica della statistica a quella della cultura sociale. Alessi conferma e Gandini aggiunge che il valore del prodotto incide oggi al 50% sulla qualità totale dell’impresa. Il resto è costituito dall’insieme dei comportamenti aziendali, dalla rete distributiva, dalla comunicazione.

Interfacce e comunicazione

II concetto di impresa esteso alla sua dimensione complessiva porta con sé, come conseguenza diretta, il problema di costruire tessuti connettivi che mettano in comunicazione le varie parti che la costituiscano e queste con l’esterno.

Se il “rapporto sanguigno” come Vanni Pasca ha definito la relazione primigenia fra imprenditore e design negli anni 60/70 era diretto, dialogico e sostanzialmente semplice, oggi grazie alla complessità dello scenario economico e di mercato, alla cresciuta dimensione delle aziende, al cambio generazionale ai vertici delle imprese, si pone il problema di chi, con quale ruolo e competenze, deve svolgere funzioni di interfaccia. Fra trend del mercato e brief aziendale, fra questo e il progetto, fra il prodotto, gli intermediari della distribuzione e l’informazione. Per tutti, oggi, l’enigma è il consumatore: chi sa

registrare i suoi umori e le sue necessita?

Accesi i giudizi sul marketing: per Mendini è fattore che appiattisce, per Starck non deve proprio esistere perché il solo interprete possibile dei “mormorii sociali” è il fiuto di un professionista di alto livello. Per Tusquets il marketing è come il prete per chi non ha fede, gli si dice che “non ha conosciuto il prete adatto”. Per Castiglioni il rapporto fra progetto e utilizzazione è il fulcro del suo interesse al progetto, non è possibile dunque pensare ad alcun intermediario fra progettista e consumatore.

Formazione

Si apre inevitabilmente il tema della professionalità: Alessi ha costituito un Centro Studi con l’obbiettivo di lavorare con i giovani e di creare relazioni fra codici progettuali e disciplinari diversi e gli strumenti e il linguaggio propri della fabbrica. Per Luti non è l'industria che si deve accollare la formazione dei giovani. A Branzi sta a cuore la formazione di designer capaci di “cogliere le vibrazioni”. Ma come c’è il problema di coltivare “designer - sciamani”, capaci cioè di canalizzare e decodificare le esigenze del corpo sociale e preparati a dialogare con l'industria, così si pone il tema della formazione di quadri aziendali che assolvano ai compiti gestionali e di fattibilità senza sacrificare intuizione e inventiva. La creatività del impresa, è stato ripetuto più volte, si esprime in primo luogo nella definizione della domanda di progetto; per Luti se quella è centrata, il prodotto giusto arriva.

Sul tema intervengono anche Mari e Castiglioni, ambedue sollecitando gli imprenditori a migliorare la qualità della domanda progettuale e a trasferire compiutamente al designer la specificità delle proprie risorse. Per Starck non è questione di design ma di gente e il plus dell’Italia sta secondo lui proprio nella qualità delle persone; i creativi del prodotto sono due: il designer che ha la carta e l’industriale che ha i mezzi di produzione.

Giovani o disoccupati?

Il tema della formazione mette in risalto il problema dei giovani. Anna Gili, curatrice di una grane mostra ideata con Alessandro Mendini - il Nuovo bel design, tenutasi durante lo scorso salone a Milano - nata con l’obbiettivo di collegare le forze del giovane progetto alle aziende italiane, denuncia lo scarsissimo interesse delle imprese a dialogare con i progettisti emergenti. Bisogna occuparsene di più, dice, e abolire la definizione “giovani” designer che non aiuta a crescere e nasconde realtà di parcheggio e disoccupazione. Per Tusquets occorre che le scuole moltiplichino i propri indirizzi estendendo i campi di applicazione del design. Si dice che c’è troppo disegno ma il mondo è pieno di cose mal disegnate e scomode che usiamo ogni giorno. Ci sono territori progettuali alternativi all’arredo domestico che potrebbero dare lavoro a molte persone. Per Mari sono almeno 40.000 i giovani - e meno giovani - che sognano di diventare grandi “firme”: occorre estendere il concetto di “mestiere” e correggere la voglia di protagonismo, retaggio degli anni 80. Per Mendini le aziende sbagliano a non aprirsi ai giovani. Per Patrizia Scarzella della Zanotta non “c'e tempo” in azienda per ascoltare le decine di aspiranti che bussano alla porta con i loro disegni.

Ricerca e qualità

La richiesta più precisa e ricorrente che i designer hanno fatto agli imprenditori è di investire in ricerca. Di nuove tipologie di prodotto, materiali e tecnologie, campi di applicazione, linguaggi sperimentali. Alessi che è un decano della ricerca esprime ottimismo: c’è da fare moltissimo, dice, basta credere alla “enormità del possibile” ed esplorarlo. Testimonia che molti dei suoi best seller commerciali coincidono con prodotti ad alto grado di ricerca. Gandini invita le aziende presenti all'incontro a lavorare alla definizione di una griglia sul concetto di qualità sulla quale lanciare poi un confronto allargato.

Per Starck il consumatore è pronto a pagare di più per prodotti “morali”, armonici con le esigenze proprie e dell'ambiente. È in atto una evoluzione delle coscienze: si consumerà sempre meno e sempre meglio.

Per Castiglioni alle imprese manca il progetto strategico: il rapporto con il designer, a cui si chiede di fare il prodotto quasi sempre a ridosso di un salone, ne soffre Ie conseguenze e la qualità complessiva del processo è penalizzata.

II rapporto “qualità/quantità”, spesso visto come una dicotomia insanabile, alla luce delle esperienze riferite può essere rivisto. La qualità sembra pagare sempre. E poi, come dice Starck, se la qualità aumenta il prezzo del prodotto, questo può diventare argomento di comunicazione da parte del produttore e di nuova consapevolezza da parte del consumatore.

UTOPIA, VALORE, ETICA

Chi ha detto che “l’utopia è morta?” tuona Enzo Mari nel pieno del suo stile oratoriale e provocatorio. L’utopia non è un luogo realizzabile ma un valore etico rispetto al quale dirigere e misurare le proprie scelte, quelle piccole e quelle più strategiche. “II solo interesse che mi spinge al progetto, dice Starck, è l’incrollabile pretesa di migliorare la qualità della vita. Siamo fra amici e fratelli a cui proporre nuovi scenari che creino libertà, partecipazione, sorpresa.” Branzi, che collega internazionalità ed etica allo stesso progetto, chiede agli industriali di pensare alla grande e affrontare i grandi impegni civili.

Per Mendini il problema ecologico è fondamentale, quello politico è il principale. La dialettica fra internazionalità e localismo chiama il tema della produzione di serie e dell’oggetto individualizzato: una strada da percorrere è quella di introdurre nella serialità la diversificazione. Gli oggetti prodotti, pur diversi fra loro, devono fare parte della stessa figura, come nel caleidoscopio. Per Juli Cappella, direttore di Ardi, l’obbiettivo più importante, l'unico, è la felicita dell'uomo; questo significa fare le cose per accrescere anche solo di un pochino la nostra e l’altrui felicità. Per Riccardo Dalisi al centro del progetto c’è l’uomo: l’obbiettivo è creare comunicazione, ovvero piani di dialogo e scambio fra diversi.

Per concludere

Introduco a questo punto il tema della “stampa di settore”, spesso accusata nel corso dell'incontro di non essersi posta abbastanza criticamente nei confronti delle imprese e dei prodotti, assimilando nello stesso scenario produzioni più e meno qualitative. In difesa delle riviste di settore si esprimono Alessi, Juli Cappella e Starck.

Alla domanda di Isa Vercelloni, direttrice di Casa Vogue “Cosa vorreste da una rivista?” Mendini, come ex direttore di Casabella, Modo e Domus, risponde dicendo che il momento è difficile perché mancano le grandi utopie e le variabili in gioco sono tante.

Come giornalista sento che il problema ci riguarda, eccome. Ho da poco fatto la scelta di lasciare la direzione di Gap Casa per cercare luoghi e alleanze più idonee all'approfondimento della ricerca che sento come bisogno urgente, personale e collettivo. La strada su cui intendo continuare è quella del dialogo fra le diverse parti del sistema, proseguendo e sviluppando quell'ipotesi di lavoro su cui nell'86 ho costruito il carattere di Gap Casa e sul quale si e fondato il successo della rivista a riprova che di dialogo c’è la necessita.

Così come i designer e gli imprenditori, anche noi giornalisti, con editori e, più  generalmente con gli operatori della comunicazione, dobbiamo fare un salto di responsabilità. Lavorare alla comunicazione è oggi uno straordinario privilegio, la stampa può diventare veramente il trade union indispensabile fra le parti di un sistema che più si fa complesso e diffuso e più ha bisogno di riferimenti comuni.

Ci sono tematiche da individuare, privilegiare e approfondire; ci sono risorse da fare conoscere costruendo collegamenti e scambi fra i “piccoli” e i “grandi mondi” (nuclei di ricerca fertili ma isolati e grandi imprese a corto di idee); c’è da valorizzare “il positivo” quando per positivo si intenda tutto ciò che aiuta a vivere in armonia con noi stessi, gli altri e il Pianeta. C’è da contribuire al superamento di dicotomie fallimentari come quelle fra qualità e quantità; bellezza e grandi numeri; funzioni utilitarie e funzioni simboliche; privato e pubblico; casa e città.

Meglio se per fare tutto questo riusciamo a creare collegamenti, alleanze e sempre nuovi incontri.

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