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1994   Politecnico di Milano / Facoltà di architettura.

Incontro con il Gruppo Vanda, coordinatrice Ida Farè

 

Il dibattito fra Clara Mantica e gli studenti è introdotto da Gisella Bassanini, docente del Gruppo Vanda. Soggetti

dell’ incontro sono l’ ascolto e la relazione fra processo e prodotto.

 

- Gisella Bassanini:

In questi ultimi mesi la parola “ascolto” è  ricorrente nel dibattito che riguarda l’architettura e il design. Ma il più delle volte l'invito a praticare l'ascolto rimane soltanto uno slogan, una dichiarazione d’intenti, una parola vuota che si aggiunge ad altre parole. È questo un atteggiamento largamente diffuso nel nostro ambiente. Siamo tutti bravi e brave a parlare di abitare, di ascolto, di responsabilità, di qualità, dell’aver cura, ma siamo meno bravi e brave quando si tratta di far diventare queste parole azioni concrete.

Si parla di ascolto ma poi si continua a procedere nella progettazione come si è sempre fatto: perpetuando all’infinito il continuo gioco dell’astrazione e della separazione. Ho paura che dietro alle parole ci sia, a volte, soltanto un atteggiamento opportunistico, il piacere di seguire le mode, di usare gli slogan linguistici che fanno più tendenza. Si dovrebbe invece assumere questi concetti e farli diventare principi fondanti un nuovo atteggiamento progettuale: un modo di pensare e fare architettura o design che sia reale espressione di un modo diverso di collocarsi consapevolmente nel mondo ed agire. Ecco che allora a Clara Mantica chiedo prima di tutto cosa significa per lei praticare l’ascolto, ben sapendo che c’è autenticità nelle sue parole e che il suo pensiero è il risultato di esperienze reali vissute consapevolmente in prima persona. Chiedo anche che ci dia altre indicazioni e suggestioni sul tema della relazione tra processo e prodotto.

 

- Clara Mantica:

“Ascolto” è innanzi tutto rispetto e intuizione. Ascoltare significa sintonizzarsi; mettersi in relazione: con gli altri e le altre, con le cose, con il contesto, con il mondo.

 

- Studente:

Al di là delle tecniche e delle strategie differenti che si possono utilizzare qual è l’obiettivo dell'ascolto o del dover essere ascoltati? E' capire quello che la maggioranza dei consumatori vuole oppure è trovare i modi per indirizzare, cambiare, trasformare i gusti dei consumatori?

 

- Clara Mantica:

Non esiste un obiettivo assoluto. La cosa fondamentale è definire insieme il risultato da raggiungere. E' importante avere chiaro l’obiettivo da conseguire ed essere su questo d'accordo. L'ascolto è un atteggiamento reciproco altrimenti diventa una comunicazione sull'altro. La comunicazione deve essere nelle due direzioni. Ogni volta è una questione di vibrazioni. Vuol dire parlarsi, informarsi, capirsi, conoscere se stessi e riconoscere l‘altro. Significa accordarsi, fare qualche cosa insieme, trovare la stessa vibrazione. E' più facile capirsi nella sincerità.

Voglio rispondere alla seconda domanda di Gisella a proposito della relazione tra processo e prodotto. Credo che questa relazione sia per tutti noi importante. È un tema assolutamente centrale. Vi faccio solo un esempio. Sono stata di recente a Benares, un posto che consiglio di conoscere perché là non c’è alcun riferimento che rimanga in piedi. I nostri riferimenti vengono totalmente ribaltati. A Benares, dicevo, ci sono dei meravigliosi tessuti che peraltro molti stilisti italiani utilizzano. Dietro a questo prodotto vi è un processo di lavorazione spaventoso. Nei cortili della città si vedono bambini di tre anni che hanno il compito di contare i fili di seta, un lavoro che solo loro, a causa delle loro piccole mani, riescono a fare. Se ci chiediamo come si fanno Ie cose (il processo) ecco che allora l’interesse per il tessuto (il prodotto) può apparire questione secondaria. È importante sapere quale processo viene messo in atto in funzione di quale risultato.

 

- Studentessa:

Non sempre i progettisti sembrano interessarsi al processo: è il prodotto - il loro prodotto - la loro creazione ad essere considerata la cosa più importante.

 

- Clara Mantica:

Molti designers si sono disinteressati del processo a causa del loro senso egoico. Nella moda come nel design si riconosce oggi di aver lasciato troppo spazio al senso egoico, a volte gigantesco, di molti stilisti e progettisti. Per anni si è concesso a chiunque facesse un piccolo bicchiere o un grande servizio da tavola, oppure un mobile, di celebrarsi. Lo si è concesso anche al giovane designer alla prima esperienza progettuale. Tutto ciò ha distorto la comunicazione ed ha provocato effetti sul mercato.

Questo atteggiamento sta però cambiando.

Di fronte all’ego straripante di molti creativi ho sempre cercato di lavorare sul tema del rapporto fra Ie parti, affermando che anche il progettista deve tener conto di come viene risolto il suo progetto. Deve chiedersi dove va a finire e quindi porsi in una posizione di ascolto e non soltanto di affermazione della propria poesia, del proprio linguaggio.

 

- Studente:

Le aziende che producono design utilizzano le riviste come mezzo per presentarsi o come canale di distribuzione. Le riviste femminili hanno un numero sempre maggiore di inserti che parlano di arredamento. Le lettrici di queste riviste possono essere domani nostre clienti. Immagino che da me possa un giorno arrivare una signora con in mano gli inserti o l'intera rivista dicendomi che vuole una casa come quella pubblicata ...

La casa italiana c’è sempre stata ma, nonostante questo, da tempo molte riviste presentano case straniere soprattutto inglesi e francesi. Va di moda la casa ispirata allo stile coloniale, una casa a volte piena di merletti e velluti. Oppure ci mostrano - ancora come negli anni Ottanta, come esempio da imitare - il grande loft, più atelier che casa, collocato magari nel cuore di New York o Parigi.

Cosa fare? Ascoltare i desideri e le aspirazioni dei nostri clienti, donne o uomini che siano, dare soluzioni pratiche e essenziali oppure suggerire altre idee di casa, diverse da quelle veicolate dalle riviste?

La figura del progettista deve rimanere autonoma o considerare tutte queste mode passeggere? Tutti net mondo ammirano il design italiano e noi italiani ci troviamo ad imitare le case e i prodotti stranieri. Gli Italiani forse non vogliono i prodotti italiani.

 

- Clara Mantica:

Si può dire che le riviste italiane non sempre sono in grado di sintonizzarsi con i prodotti italiani. La comunicazione che esce dal Salone del Mobile non è configurata come quella che emerge da molte riviste di casa nostra. Non è un caso che molte aziende, non identificandosi con le riviste, preferiscano raccontarsi da sole facendo un proprio inserto staccato dalla rivista che lo ospita. Oppure parlano direttamente ai consumatori senza neppure usare la rivista come veicolo distributivo.

 

- Studente:

Ma questa situazione crea soltanto confusione!

 

- Clara Mantica:

Ho proposto tempo fa ad una azienda di prestare attenzione “al ritorno”; ascoltare cioè la reazione del mercato, dei consumatori. Ma la mia proposta non è stata accettata.

 

- Studente:

Forse da parte di alcune aziende c’è la paura di scoprire cose a loro sconosciute. Ascoltando i consumatori magari emergono umori, tendenze, necessità, desideri, atteggiamenti, diversi da quelli prefigurati dall'azienda. Il piano e la programmazione di un'azienda - Ie ipotesi di futuro - possono anche essere messe in crisi dalle reazioni del mercato.

 

- Clara Mantica:

L’ipotesi della paura emerge come probabile risposta al perché molte aziende preferiscano in genere non ascoltare i consumatori. Negli anni in cui sono stata direttore responsabile di Gap casa nessuno è mai venuto dicendomi:

“Sono un produttore e ho fatto queste ricerche motivazionali. Emergono dalle ricerche questi dati, possiamo lavorare insieme su questi dati?”.

 Questo scambio, che io ho sempre cercato, è molto difficile da effettuare con le aziende. Tutto ciò non solo crea confusione tra i consumatori ma anche tra i designers. Si è scoperto, nel tempo, che alla base non c’è una sufficiente conoscenza di sé come azienda e dell'altro, il consumatore.

 

 

- Gisella Bassanini:

Hai trasformato in questi mesi la tua casa da casa per un abitante stanziale a casa per una nomade. Vuoi dirci qualche cosa del rapporto tra stanzialità e nomadismo - tema che a noi interessa particolarmente - e soprattutto raccontarci come è avvenuto il passaggio, la metamorfosi della tua casa?

 

- Clara Mantica:

L'intreccio tra pubblico e privato nella mia vita è sempre stato molto forte. La mia casa è di 42 mq, e con quale logica la sto ancora risistemando?

So che Gisella Bassanini ha dato, a chi segue una delle esercitazioni all’interno di questo corso, un’indicazione di lavoro: “riprogettare per eliminazione la propria casa”. A me sta accadendo proprio questo. Forse per la saturazione dei 42 mq ho deciso di mettere in ordine la mia casa. Il nomadismo è diventato per me un dato di realtà. La mia flessibilità oggi è maggiore di quella di prima. Devo essere disponibile a muovermi molto di più di quanto facessi in precedenza. Ora devo essere sempre pronta e disponibile a cambiare, a sintonizzarmi, a spostarmi.

Questa mia casa era una casa piena di sé e piena di me; era ingombra di me e quindi poco disponibile e aperta alla relazione, ad ospitare altre persone. Ora è uno spazio che accoglie anche cinque persone contemporaneamente. Il nomadismo porta con sé, paradossalmente, un’organizzazione più efficiente della parte stabile e tutto diventa più facile.

Pur conoscendo molti produttori sono andata all’Ikea ad acquistare la struttura dell'armadio, il guscio; a questo ho aggiunto, al posto delle ante, dei pannelli in tela che scorrono su binari. In questi anni ho sempre ignorato un tipo di arredo “organico”, preferivo mettere le cose per terra e ho comunque sempre preferito arredi “effervescenti”. Ma alla fine mi sono accorta che mi mancava un armadio per i vestiti e un mobile all’interno del quale disporre in ordine i piatti, i bicchieri, e anche l’aspirapolvere. A questo punto con due mobili che sono i più ortogonali possibili, e banali, la mia casa è diventata più abitabile. Il mobile bianco e liscio vicino all’ingresso funge da parete divisoria e accoglie di tutto e per questo l’ho chiamato “balia”. Questa esperienza di trasformazione mi ha fatto rivalutare un certo design (ortogonale, “organico”, semplice) che in tutti questi anni avevo ignorato; anche se tengo ancora nella mia casa e1ementi di arredo “effervescenti”.

Ho scelto di tenere nella mia casa le cose che più mi piacevano, o mi servivano, di più e ho invece eliminato tutto il resto. Ad esempio alcuni libri li ho regalati ad amici, altri li ho donati ad una comunità. Le cose che non volevo più le ho date a chi invece può averne bisogno.

 

- Studentessa:

Lei è venuta qui portandoci copie di una cartolina di Amnesty International dal titolo “Ottimismo”. Ce ne può spiegare il significato?

 

- Clara Mantica:

È una fotografia di Fabio Mantovan che raffigura un funambolo, legata ad un concorso indetto nel febbraio 1994, dal titolo: “C’è ancora spazio per l’ottimismo?”

Essere funamboli vuol dire saper guardare avanti e allo stesso tempo rimanere centrati in se stessi. Avere cioè il senso del proprio corpo, del proprio baricentro. Non chiudersi dentro di sé, ma guardare avanti senza perdere di vista il punto. Essere funamboli vuol dire stare in relazione tra sé e gli altri; lavorare su di sé e alla relazione con il mondo. Essere funamboli vuol dire mantenere un equilibrio. Prevede flessibilità e dinamismo. Essere in quel dinamismo che fa parte dell’esistenza. Trovare armonia fra gli opposti: fra il cielo e la terra, fra la povertà e le risorse, fra Oriente e Occidente, fra il maschile e il femminile, fra la destra e la sinistra, fra la stasi e l’azione, fra l’introspezione e la socializzazione, fra la centralità e l’emarginazione, fra il processo e il prodotto. Non sono queste parole vuote, almeno per me. Credo di aver vissuto in modo autentico ciò che ora vi dico. La mia teoria è il risultato delle riflessioni sulle esperienze che ho fatto.

            La casa del funambolo può essere una casa in grado di ospitare. Una casa aperta ad altri funamboli. Siamo in tanti a sentirci cosi. È una casa sicuramente meno egoica, meno satura di noi stessi.

 

- Ida Farè:

Hai parlato di un abbandono degli stili, si pùò dire che è un fenomeno generalizzato?

 

- Clara Mantica:

Credo di sì. È esattamente come per l’abbigliamento. Si preferiscono colori chiari, rinfrescanti, rassicuranti. Si preferisce il neutro.

 

- Studentessa:

Sono stata all'ultima edizione del Salone del Mobile e ho notato, oltre all'assenza di colori, anche l’assenza di differenze tra una produzione e l’altra. Non sempre l’azienda si riconosce dalla sua produzione. Le linee si sono tutte addolcite e manca un oggetto forte all'interno della produzione. Non ho trovato neppure la tanto citata flessibilità degli elementi d’arredo.

Mentre da una parte i designers fanno ricerca tentando di realizzare mobili flessibili      - del resto la stessa società impone la flessibilità – dall’altra parte le aziende non sembra vogliano appoggiare questo tipo di ricerca. Manca un dibattito che affronti seriamente il rapporto tra ricerca e produzione.

Ci potrebbero essere anche trasmissioni televisive sul tema.

 

- Clara Mantica:

Ti rispondo con un esempio. Con l’impresa sociale di Trieste Hill tempo fa ci siamo detti: “c’è un tale patrimonio di esperienze abitative in cui pubblico e privato si contaminano...”

 A Trieste hanno allora studiato delle pareti attrezzate polifunzionali. Io sono poi andata da una grande impresa proponendo di realizzare questo progetto. Eravamo certi che questo tipo di soluzione avrebbe incontrato i favori del mercato, di quella fetta di mercato rappresentata dagli studenti, da chi viaggia molto, ad esempio. Tutto era stato studiato e valutato. L’impresa a cui mi sono rivolta non ha accettato il progetto dicendo: “stiamo difendendo a fatica la nostra posizione di mercato, non possiamo rischiare...”.

 Non sempre è prevista dall’impresa un'area dedicata alla ricerca. In questi anni la ricerca l’hanno fatta - ad eccezione di alcune aziende - soprattutto i designers, e a proprie spese.

 

- Gisella Bassanini:

La casa che viene proposta anche all’intero del Salone del Mobile è la casa tradizionale (casa guscio, spazio privato, luogo di separazione, casa per la famiglia), oppure è una casa che suggerisce anche altri modi di abitare?

- Clara Mantica:

Il sistema casa è fatto di mobili fissi ed elementi spostabili. Ci sono mobili, anche di grosse dimensioni, con Ie ruote, ma quante volte li sposteremo questi mobili?

Sicuramente questi elementi non rimandano all'idea di mobilità e alla cultura del nomadismo cosi come noi le intendiamo. I sintomi di questo tipo di ascolto non li vedo. Non si avvertono configurazioni diverse da quelle tradizionali. Un’altra cosa che ho notato è che sovente non si aiuta il consumatore a conoscere come si usa un prodotto. C’è ancora un tipo di comunicazione un po’ allusiva.

 

- Studentessa:

Una questione importante che lei ha citato nella sua relazione è il rapporto con la tradizione, con i mestieri artigiani. Può dirci come pensa questo rapporto?

 

- Clara Mantica:

È importante che il progettista si ricolleghi alla pratica del mestiere artigiano. L'esperienza di rilancio dei mestieri d’autore per la Camera di Commercio di Siena è a questo proposito un’esperienza importante. C’è un testo dal titolo: Mestieri d’autore (Camera di Commercio di Siena, Electa, 1993), curato da Franςois Burkhardt e da me, che documenta tutta questa esperienza.

Saldare un atteggiamento progettuale e manageriale con la conoscenza profonda e diretta di un mestiere artigiano è cosa importante soprattutto in Italia, un paese ricco di tradizione artigianale. 

 

- Studente:

Credo che sia necessario anche rivalutare il ruolo e valore del consumatore, solo cosi sarà possibile ottenere dei reali cambiamenti.

 

- Clara Mantica:

Quello che io mi auguro è che le nuove generazioni siano veramente disposte a tirare fuori la propria autenticità. Bisogna anche imparare a capire quali sono le aziende più in sintonia con il proprio design. Imparare ad ascoltare. La paura del mercato è una paura che molti progettisti hanno. Sono convinti che entrare in relazione con il consumatore voglia dire penalizzare la propria creatività. La relazione non è una perdita ma un’occasione di incontro tra chi vuole esprimersi attraverso il progetto e chi vuole esprimersi attraverso una scelta.

 

Philippe Starck dice di non essere un designer ma un politico, uno shamano, uno che ascolta, che osserva, che non guarda solo a se stesso. Dobbiamo toglierci il sentimento egoico e non certo il nostro carattere, la nostra creatività. O progettiamo per autocelebrarci o progettiamo per andare incontro agli altri.

 

A conclusione del nostro incontro vi lascio alcuni indirizzi e documenti riferiti alle realtà che vi ho citato precedentemente, nella speranza che si attivino nuove relazioni e che il cammino (passo dopo passo) continui. 

PROCESSO PRODOTTO Gap Casa
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